domenica 29 novembre 2015

L'UNICA RAGIONE



I, I will be king
And you, you will be queen
Though nothing will drive them away

L’uomo si sistemò gli auricolari e guardò la città deserta, davanti a sé.
Non è tranquilla come sembra” pensò, mentre il cielo plumbeo iniziava a scurirsi. La pioggia sferzava l’aria con gocce di ghiaccio.
«Muoviti, tra poco sarà sera, non vorrai stare qua fuori?» La voce di Chiara lo riscosse.
Le tirò un pugno scherzoso sulla spalla. «Chi ha avuto l’idea di attraversare questo schifo?» rispose, sorridendo.
Chiara si scostò una ciocca bionda dagli occhi. «Non dare la colpa a me ora» disse, scoppiando a ridere. «Coraggio!»
E iniziò a correre lungo la strada.

'Cause we're lovers, and that is a fact
Yes we're lovers, and that is that

L’uomo si strinse nel parka. Si era alzato il vento e la pioggia scendeva in obliquo, colpendolo al volto come aghi di ghiaccio. Si sistemò lo zaino sulla spalla e avanzò, in cerca di un rifugio per la notte.
Oltrepassò un negozio di elettronica con le vetrine sfondate e del tutto vuoto e si fermò sulla soglia della drogheria accanto.

We can beat them, just for one day
We can be Heroes, just for one day

«Ci sarà ancora qualcosa?» gli chiese Chiara.
«Tentar non nuoce» le rispose, entrando.  «Tu guarda negli altri negozi, io faccio un giro veloce.»
Il campanello tintinnò, annunciando il suo arrivo. L’uomo estrasse la pistola da sotto il cappotto e proseguì verso gli scaffali con cautela: tutti vuoti. Gli sciacalli avevano già preso ogni cosa.
Andò nel retrobottega, anche questo razziato.
Almeno non ho trovato nessun predatore.
Uscì e Chiara gli corse incontro.

And you, you can be mean
And I, I'll drink all the time

«Ho trovato un supermercato! È proprio nella strada qua dietro» disse indicando un punto alle sue spalle. «Potrebbe essere un ottimo riparo per la notte.»
L'entusiasmo di Chiara riusciva sempre a contagiarlo. «Bene, andiamo» le rispose con un sorriso.

Though nothing, will keep us together
We could steal time,
just for one day

Il supermercato sorgeva in un piazzale circondato da un enorme parcheggio disseminato di scheletri d’auto arrugginiti. L’uomo vide che il portone principale era ostruito da mobili, carrelli accatastati uno sopra l’altro, e una jeep senza copertoni.
Forse qualcuno ha già trovato rifugio all'interno” pensò.
Proseguì lungo il lato destro dell’edificio e trovò l’ingresso di servizio: due porte metalliche, con le maniglie chiuse da una catena. Davanti al portone, c’era un’enorme pozzanghera che si estendeva per tutta la grandezza delle porte; al centro, davanti all’ingresso, un unico lampione ormai spento.
Potrei usare la tenaglia, ma sembra un posto sicuro dove fermarsi un paio di giorni.
«Chiara, cerchiamo un’altra entrata. Non voglio distruggere quella che potrebbe essere una linea di difesa.»
«No» lo fermò Chiara «Guarda il cielo!»
Non si era accorto che l’oscurità stava calando più in fretta di quanto aveva previsto.
Dannazione, oggi non è proprio giornata.
«Non rimane altra scelta. Romperò il lucchetto» affermò.

I, I will be king
And you, you will be queen
Though nothing will drive them away
We can be Heroes, just for one day
We can be us, just for one day

Il lampione solitario al centro della pozzanghera sembrava essere un guardiano silenzioso.
«Stai indietro, Chiara, credo che questo supermercato non sia disabitato.»
«Predatori?»
«Non credo, umani. Speriamo siano amichevoli o…» lasciò cadere la frase nel vuoto.

We can beat them, for ever and ever
Oh we can be Heroes,
just for one day

Fece un passo nella pozzanghera, l’acqua gli arrivava al polpaccio.
“Parecchio profonda.”
Avanzò di un ulteriore passo ed ebbe un mancamento, venne strattonato per il piede destro, gli sembrò che la gamba venisse staccata dal corpo. Chiuse gli occhi, la terra sotto ai piedi svanì, e quando li riaprì si ritrovò a guardare il mondo a testa in giù. Era appeso al lampione.
“Merda… sono un coglione.”
«Chiara! Aiutami!» si guardò intorno, ma non la trovò.
«Chiara!» gridò, ma solo la pioggia rispose al suo richiamo.
Dove si è cacciata? Prima o poi si metterà nei guai!
Prese la pistola dalla fondina, ma aveva le dita bagnate e gli scivolò, cadendo con un tonfo nella pozzanghera.
Che giornata del cazzo!
Un urlo acuto lo fece rabbrividire, il suono rimbalzò fra tutti i palazzi della città, come un’eco.
Quanti cazzo sono?
Con le mani che tremavano, estrasse il coltello dal fodero alla cintura. Cercò di tirarsi su per tagliare la corda, ma lo zaino si oppose.
Lo devo lasciar andare”.
Si tolse prima una bretella e poi l’altra, lo zaino si schiantò nella pozzanghera.
Un altro ruggito lacerò lo scrosciare della pioggia. L’uomo rimase penzolante per la gamba. Osservò il cielo, si stava scurendo.
Non ho più molto tempo… forza, cazzo!
Contrasse gli addominali e si sforzò mentre cercava di raggiungere la corda, si stirò, allungando il braccio destro fino al suo limite, ma non era ancora abbastanza. “Merda!
Tentò finché il bruciore ai muscoli non divenne insopportabile, poi si lasciò andare, la schiena e il collo scrocchiarono. Il fiato gli si spezzò. Restò appeso, fece respiri lenti e profondi, cercando di calmarsi.
D’accordo, devo fare le cose piano, ce la posso fare” pensò, respirando profondamente.
Piegò il ginocchio della gamba appesa, poi contrasse gli addominali e si raggomitolò su se stesso, afferrandosi il ginocchio con la mano sinistra. Stese il braccio destro e con il coltello arrivò alla corda che lo teneva prigioniero. Mosse la lama avanti e indietro, lo sforzo per mantenersi in posizione era immane, ma non aveva altra scelta.
Forza, cazzo!
Il ruggito dei predatori tornò a interrompere il rumore ritmico della pioggia.
Aumentò la velocità, la schiena e le braccia in fiamme.
Ormai mancava poco.” I fili intrecciati della corda erano sul punto di cedere.
Così… dài… andiamo, bella…” La corda si spezzò. La caduta durò un istante. L'uomo si schiantò sul fianco destro, nell’acqua ghiacciata che gli entrò in bocca e nelle narici. Il colpo fu attutito dallo zaino, ma rimase comunque stordito a terra. Tossì, liberando le vie respiratorie. Rimase fermo, pietrificato dal freddo e dal dolore, poi si concesse di tirare un lungo respiro di sollievo.
Salvo…
Quando si sentì sicuro di essersi ripreso, tentò di alzarsi, ma la gamba lo bloccò. Inondandolo con una scarica di dolore.
«Che cazzo?»
Risprofondò nella pozzanghera, si resse sui gomiti, i denti che battevano.
Chiara… dove sei finita?
Guardò il cielo, stava calando la notte e la temperatura era scesa.
«Chiara!» chiamò, ma non ebbe risposta. “Devo muovermi.
Fece leva sul braccio e alzò il fianco, cercando di liberare la gamba da ciò che la bloccava. Il dolore tornò, più forte di prima, ora lo sentiva, era come se vi fosse conficcato un pugnale.
Grugnì stringendo i denti e si tirò ancora più su, finché non sentì qualcosa uscire dalla sua gamba, con un colpo di reni uscì dalla pozzanghera e si sdraiò pancia all’aria sull’asfalto bagnato a un passo dall’ingresso.
Una trappola del cazzo. Porca troia, meno male che c’era lo zaino” guardò nel punto in cui era caduto: una punta di ferro arrugginito era appena visibile sopra il pelo dell’acqua.
Si trascinò fin contro la porta chiusa, si tolse la kefiah e la usò per tamponare il sangue che sgorgava dalla ferita, poi la avvolse intorno alla gamba e strinse. Fece un doppio nodo, la stoffa era già insanguinata.
Con le dita tremanti aprì il taschino superiore della giacca e prese la scatola degli antibiotici, estrasse una pillola, e se la mise sulla lingua. Deglutì.
Devo muovermi, cazzo, o sentiranno l’odore.
Si aggrappò alla maniglia in ferro e si alzò. Zoppicò dentro la pozzanghera e, piegandosi solo sulla gamba buona, recuperò lo zaino dall’acqua, lanciandolo contro la porta.
Poi si accovacciò, facendo un enorme sforzo per ignorare il dolore alla gamba. Scavò nella melma, alla cieca, finché non sentì qualcosa di metallico. “Eccola!” provò a prendere la pistola ma la perse. Imprecò e continuò con la sua ricerca. Riuscì con l’indice a toccare la pistola e a tirarla verso di sé. La impugnò e la estrasse dalla fanghiglia.
Merda! Così com’è non posso usarla” pensò osservando la canna ostruita. La mise nella fondina e si alzò.
Un urlo disumano, seguito da un ruggito. Poi altre urla si aggiunsero al coro, in una cacofonia che coprì il rumore della pioggia. L’uomo alzò gli occhi al cielo: la flebile luce del giorno era diventata ancora più tenue, non c’era più tempo.
Che giornata di merda.
Estrasse il fucile dallo zaino, lo puntò contro il lucchetto e sparò. Questo cadde con un tonfo sordo e il catenaccio si allentò, l’uomo liberò le maniglie più in fretta che poté.
Andiamo.
Si mise il fucile a tracolla e raccolse lo zaino.
Un altro ruggito. Questa volta molto più forte di prima, molto più vicino.
Cazzo… Chiara… dove sei?
Diede una rapida occhiata alle proprie spalle.
«Chiara!» gridò, provò a cercarla con lo sguardo, ma l’oscurità glielo impediva. Si soffiò una narice otturata ed entrò nel supermercato. Richiuse la porta alle proprie spalle, staccò un’asse da un pallet lì vicino e la usò per bloccare le maniglie. Poi si lasciò andare a terra, la schiena contro la porta, la gamba che continuava a tormentarlo. Restò in silenzio, stremato.
Chiara… dove cazzo sei finita?
Sentiva il cuore che gli esplodeva nel petto, la sua mente vagò. Gli apparve l’immagine di Chiara, squartata in un vicolo, le viscere sparse sull’asfalto bagnato, il corpo ridotto a uno scheletro con brandelli di carne e vestiti ancora attaccati.
Scosse la testa, cercando di scacciare quei pensieri.
Ho bisogno di un po’ di musica. Devo ritrovare la calma, non devo farmi prendere dal panico. Si sarà sicuramente nascosta in qualche posto sicuro.
Prese gli auricolari e se li portò alle orecchie.
«Coglione, cazzo hai fatto?» gridò una voce nell’oscurità. Uno sparo da qualche parte nel supermercato.
Merda… questa è proprio una giornata del cazzo!” Strinse i denti e si rialzò, la gamba gli mandò una nuova scarica di dolore, rimase un secondo fermo, paralizzato.
Ci fu un altro sparo, il suo cacciatore si stava avvicinando. L’uomo iniziò a muoversi, zoppicando e reggendosi agli scaffali vuoti.
Devo nascondermi, porca puttana, ci mancava solo questa testa di cazzo!
Proseguì alla cieca, inciampò su una bottiglia vuota e rovinò a terra, mordendosi la lingua. Il sapore del sangue gli invase la bocca. Uno sparo. Il proiettile gli sibilò sopra la testa.
«So dove sei, coglione!»
Strisciò sotto lo scaffale e si ritrovò nel corridoio parallelo.
«Non puoi scappare, sei fottuto, coglione!» Il cacciatore sparò ancora, l’uomo si sentiva una bestia in trappola.
Corse al massimo che la gamba gli consentiva, nel buio, zoppicando e sperando che il rumore dei suoi passi venisse coperto dalla pioggia che sbatteva contro il tetto. Qualcosa lo colpì al basso ventre, venne sbilanciato in avanti e sbatté la faccia contro una superficie tiepida e liscia.
La toccò con la mano. “Plexiglass. Reparto frigo. Porca puttana… forse ce la faccio.
Tastò con le mani cercando la maniglia, seguì i bordi del frigo e la trovò, la aprì e si infilò dentro, chiudendosi la porta sopra. Rallentò i respiri, la gamba tornò a fargli male. L'ambiente non era molto largo, ci stava a malapena, ma era lungo e l’uomo poté distendersi senza problemi, questo fu un sollievo. Lo zaino sulla schiena gli faceva da materassino, chiuse gli occhi.
Chiara… dove sei…” pensò, crollò nel sonno senza neanche rendersene conto.
Fu svegliato di soprassalto da un’esplosione.
Se quell’idiota non la finisce ci sentiranno.” L’uomo si strinse nel parka, il cuore che batteva come un tamburo a causa dello spavento, le tempie che pulsavano. Non sentiva più la gamba, provò a muoverla e avvertì un formicolio, estrasse la scatola e prese un’altra pastiglia di antibiotico.
«Coglione! Guarda che cazzo hai fatto!» la voce dell’altro uomo gli arrivò ovattata dal vetro che lo separava dal mondo.
Basta, cazzo, voglio riposarmi… sono stanco… e devo ancora trovare Chiara…
Ci fu un boato, non era il rumore di uno sparo. Rimase in assoluto silenzio e tese le orecchie. Un altro boato e un sibilo, un sibilo lungo e prolungato, poi rumore di passi pesanti, così pesanti da sovrastare il frastuono della pioggia contro il tetto. Sentì le pareti del frigo vibrare.
“È entrato un fottuto predatore! Merda! Sono nella merda!
Si contorse nell’angusto spazio e riuscì a liberarsi dell'arma a tracolla, la appoggiò accanto a sé. Si tolse lo zaino e aprì la tasca laterale, prese il visore notturno, lo indossò. Il buio si tinse di luce verde. Poi prese il fucile e aprì il caricatore.
“Sei colpi… più uno in canna” sospirò. “Devo essere veloce e preciso.
Voleva uscire dal frigo ma la gamba gli faceva ancora troppo male. 
Avessi ancora la morfina. Ho bisogno di concentrarmi, devo ignorare il dolore se voglio uscirne vivo. E devo ritrovare Chiara.
Prese le cuffiette che spuntavano da sotto la kefiah, le mise nelle orecchie, chiuse gli occhi. E si isolò dal mondo.

Like the dolphins, like dolphins can swim
Though nothing,
nothing will keep us together
We can beat them, for ever and ever

Sentì qualcosa tirargli la gamba, aprì gli occhi e puntò il fucile, era pronto a premere il grilletto, quando mise a fuoco chi aveva davanti.
«L’ho visto… è nel corridoio di sinistra…»
«Chiara, da dove cazzo spunti fuori? Avevo bisogno di te!»

I, I can remember
Standing, by the wall

«Ho trovato un’entrata secondaria e ti ho perso di vista. Fa’ silenzio ora, non c’è tempo, lui sta arrivando.» Chiara gli fece cenno col capo in alto a destra.
«È lì» disse.
L’uomo vide un M16 proprio sopra il vetro di plexiglass.
«Merda…»
«Hai paura?» lo stuzzicò Chiara.

And the guns shot above our heads
And we kissed,
as though nothing could fall

«Quante volte ti ho detto di non sottovalutare chi incontriamo?»
«Attento! Esci da qui!» gridò Chiara all'improvviso, indicando il soffitto.
L’uomo non se lo fece ripetere, si tolse le cuffie tirandole dal cavo, aprì il frigo e schizzò fuori, nel lato opposto rispetto al pazzo. Il cacciatore si voltò verso di lui, sparò, ma l’uomo si accucciò contro il frigo e strisciò per alcuni metri, cercando di guadagnare terreno.
Seguì un rumore assordante, simile all’esplosione di una bomba. L’uomo si sporse: il punto del frigo in cui era stato nascosto fino a poco tempo prima non c’era più, al suo posto, un predatore.
La bestia si alzò sulle gambe e lanciò un ruggito nella direzione dell’uomo. Dalla bocca spalancata del mostro si potevano vedere i denti aguzzi, perfetti per dilaniare la carne.
C’era un qualcosa nel volto dei predatori che lo terrorizzava: la loro somiglianza con gli umani. Per quanto fossero diventati così diversi da ciò che erano, il loro sguardo tradiva la loro antica natura.
Chiara! Dimmi che sei riuscita a scappare… cazzo!” strinse i pugni. “Avrei dovuto aiutarla!
Il cacciatore aprì il fuoco verso la bestia, che ruggì furibonda e sparì nei corridoi con un balzo. L’uomo vide le spine ossee che spuntavano dalla schiena glabra del mostro e rabbrividì.
«Guarda cosa cazzo hai fatto!» gridò il pazzo e l’uomo lo sentì correre via.
Controllò il soffitto e le pareti circostanti, cercando il predatore, ma di lui, a parte i segni lasciati prima, nessuna traccia.
 Sospirò e controllò il frigo distrutto.
«Chiara?» bisbigliò. Si sentiva il cuore in gola, temeva di trovarla squartata, il suo corpo sbudellato in una pozza di sangue. Ma invece trovò solo vetri rotti e pezzi di ferro.
«Chiara?» sussurrò. Si guardò intorno, cercandola. «Chiara?» disse più forte. Non ricevette risposta, solo raffiche di fucile in qualche corridoio lontano e il tamburellio della pioggia contro il tetto.
Merda, dov’è che si caccia sempre?” Un po’ più sollevato, si mise il fucile in spalla e zoppicò verso gli spari.
Sfruttando la copertura di uno scaffale, si sporse per guardare: il pazzo stava sparando contro il predatore, senza riuscire a colpirlo. La bestia era veloce, spariva nel dedalo di corridoi e appariva da uno scaffale, dal soffitto, o alle spalle del pazzo, che però reagiva sempre prontamente, colpendo la bestia con raffiche brevi e mirate.
Deve avere parecchi proiettili. Se ammazza la bestia io ammazzo lui.
Seguì lo scontro attraverso il mirino del fucile. Il pazzo aveva appena schivato una carica del predatore e stava ricaricando dopo aver colpito la bestia a una gamba.
Ora!” Sparò. Aveva avuto l’uomo sotto mira per tutto il tempo, eppure il proiettile gli passò a pochi centimetri dal naso.
«Merda!» disse a denti stretti.
L’uomo si voltò verso di lui.
«Pezzo di merda! Coglione! Lo hai fatto entrare tu!» sparò nella sua direzione, un proiettile gli sibilo accanto l’orecchio, lasciando una scia di calore sul suo zigomo. L’uomo ritornò in copertura.
«Possiamo collaborare per ucciderlo! Ascolta… c’è mia moglie con me… voglio solo uscirne vivo…»
«Dovevi pensarci prima, stronzo! Adesso me l’hai fatto perdere di vista… Giuro che ti apro il culo!»
Sentì i passi del pazzo allontanarsi e l’uomo rifiatò. Guardò il soffitto, libero. Si sporse di nuovo verso il corridoio, anche questo libero. Tremava, sapeva che doveva immergersi in quel labirinto per ritrovare Chiara.
«Chiara?!» disse, in un ultimo tentativo. Solo il tamburellio ritmico della pioggia.
«Cazzo!» Serrò la mascella e fece un primo passo. Sputò un grumo di saliva, catarro e sangue; le orecchie tese per captare ogni minimo rumore sospetto. Il dito sul grilletto, pronto a fare fuoco.
Sapeva che il predatore lo stava braccando, ne avvertiva la presenza, come un’ombra opprimente. Ogni due passi si controllava alle spalle poi guardava verso l’alto.
Attraversò quello che doveva essere il vecchio reparto di ferramenta con appesi ai ganci degli scaffali chiodi, martelli e cacciaviti.
Cazzo, avrei potuto prendere qualcosa se non fossi in questa situazione di merda.
Un rumore attirò la sua attenzione, si bloccò e cercò di decifrarlo, era un pianto. Com’era iniziato, cessò. L’uomo si diresse verso quella direzione, pronto a cogliere altri rumori sospetti.
E il pianto ricominciò poco dopo.
«Chiara?» bisbigliò, senza ricevere risposta. Proseguì per il corridoio fin quando il pianto non si arrestò ancora. Si trovava a un incrocio di reparti.
E adesso che strada prendo?” si chiese mentre controllava che il predatore non gli potesse piombare dal soffitto.
Dopo qualche istante di silenzio, lo risentì. Veniva da corridoio davanti a lui. Non era un pianto, era una risata, si ripeteva sempre uguale a intervalli regolari.
È una specie di trappola?
Camminò piano, concentrando il proprio peso sulla gamba sana, senza sforzare quella ferita e controllando sempre alle proprie spalle e il soffitto. Era sudato fradicio, aveva freddo, tremava, si sentiva la febbre e la testa pesante. Aveva voglia di dormire, di chiudere gli occhi e mandare tutto a fanculo.
Ma doveva ancora trovare Chiara.
Arrivò alla fine del reparto, la risata veniva proprio da dietro l’angolo. Si appiattì contro la parete vuota, fece un bel respiro e uscì allo scoperto, il fucile pronto a sparare.
Non c’era nessuno, solo un orso di peluche a terra, sgualcito e consumato, con un occhio mezzo staccato. Era il pupazzo a emettere quella risata. L’uomo se lo rigirò in mano e spostò su OFF la levetta dell’accensione.
Sentì un rumore, alzò lo sguardo e poco più avanti vide una sagoma bassa e sottile arrampicarsi su uno scaffale. Un bambino.
Lo scaffale crollò verso l’interno, come se qualcosa l’avesse spinto. Il bambino perse la presa e cadde a terra, ma fu fortunato: lo scaffale si bloccò contro quello opposto e non lo schiacciò. Il predatore emerse nel corridoio dal lato, era stata una sua trappola.
“Porca troia, non li facevo così furbi.”
L’uomo lasciò l’orso e prese la mira verso la bestia che stava emettendo il suo sibilo di caccia.
«Scappa!» gridò una voce.
Il pazzo arrivò in aiuto del bambino sparando a raffica. I colpi centrarono il predatore alla spalla, ma questo, anziché rallentarlo, lo fece infuriare. Scoprì i denti affilati come le zanne di un lupo, ruggendo in faccia al pazzo. La pelle glabra del volto si contorse in un’espressione animalesca che non aveva più nulla dell’umanità che un tempo vi albergava.
Il mostro si avventò sull'aggressore, trafiggendolo al petto con gli artigli delle mani.
Il pazzo tossì. «Ricordati quello che ti ho insegnato» rantolò.
L’uomo provò pena per lui, sapeva che sarebbe potuto essere al suo posto.
Il predatore emise un ruggito di vittoria e lo morse al collo, il pazzo puntò il fucile sotto la mandibola e sparò. Entrambi caddero a terra in un colpo sordo. Il rumore fu seguito da un altro, l’uomo rimase in tensione, ma non sentì più nulla di sospetto e tornò a respirare.
Chiara è in salvo. Per fortuna è finita.
Abbassò l’arma e andò verso il corpo del bambino che sporgeva da sotto lo scaffale, lo toccò con un piede.
«Sei vivo?» chiese.
Il bimbo si mosse e tossì. Allora l’uomo lo afferrò per la giacca e lo trascinò fuori da quella trappola. Gli diede una spolverata ai lunghi capelli mentre questi si metteva seduto con le gambe incrociate. L’uomo si inchinò e lo guardò, indossava un visore molto più grande della sua testa, stretto con lacci di fortuna che gli arrivavano fin dietro al collo.
«È tutto finito?» chiese il bimbo.
«Sì» rispose l’uomo.
«Dov’è il mio papà?»
L’uomo fece una pausa, pensando a cosa dire.
«Lui è… beh… ha detto che devi venire con me.»
«Non è vero. Lui mi ha detto di non fidarmi degli altri. Voglio sentirlo da lui» il bimbo incrociò le braccia.
Merda, non ci so proprio fare con i bambini… meglio cambiare argomento”.
«Hai per caso visto mia moglie? Dev’essere da questa parti.»
Il bambino non rispose. «Voglio il mio papà.»
L’uomo si grattò la nuca dove il visore stringeva con i lacci, pensando a un modo di sbloccare la situazione.
Non posso lasciarlo così.
«Ti piace la musica?» gli chiese allora.
«La musica?» il bambino sembrò più interessato.
L’uomo gli porse un auricolare, il bimbo sembrò indeciso se accettare o no, prese la cuffietta nella manina e la osservò.
«Cos’è?» chiese.
«Una cuffia, da lì esce musica, avvicinala all’orecchio.»
«Mio papà mi canta sempre una canzone prima di dormire.»
«Non so se è la stessa, ne ho solo una, purtroppo non è facile trovare un computer di questi tempi… è la preferita di mia moglie. Ascoltala, non aver paura» l’uomo sorrise mettendosi l’auricolare, cercando di rassicurare il bambino.

And the shame was on the other side
Oh we can beat them, for ever and ever
Then we could be Heroes,
Just for one day

Questo si mise la cuffia nell’orecchio e poi fece un’espressione stupita.
«Ti piace?»
«Ma non si sente niente.»

We can be Heroes, for ever and ever
What d'you say?

«Come no? La mia funziona… proviamo a scambiarcele.»
Prese la cuffia del bimbo e se la mise, dandogli la propria.
«Funziona, io la sento…»

We can be Heroes
We can be Heroes
We can be Heroes
Just for one day

«Non va!» disse il bambino, lanciandogli la cuffietta contro.
«Calmati, non riesco a capire» si mise anche la seconda cuffia.

We're nothing, and nothing will help us
Maybe we're lying,

«Funziona!» disse.
Sentì una mano sulla propria spalla e si voltò, era Chiara.
«Ti ho cercata dappertutto!» la abbracciò e la baciò sulle labbra. «Ho avuto paura di perderti!»
Lei gli accarezzò il viso. «Stai tranquillo, sono qui ora.»

Then you better not stay
But we could be safer,
Just for one day

«Ma con chi parli?» chiese il bambino.
«Oh… lei è mia moglie, si chiama Chiara.»
«Dobbiamo andare via! Non hai sentito?» urlò Chiara.
«Non gridare! Cosa c’è?»
Chiara indicò il bambino, che lo fissava tremando, sembrava terrorizzato.
Successe in una frazione di secondo. Un predatore sfondò lo scaffale laterale, infilzò il bambino con una mano e lo trascinò indietro con sé senza lasciargli neanche il tempo di urlare.
«Muoviti!» lo tirò Chiara «non possiamo farci niente!»

We can be Heroes

«Dove cazzo è l’uscita?» chiese l’uomo.
«Seguimi!» rispose Chiara correndo davanti a lui, che riusciva a malapena a camminare.
Lo guidò nel dedalo di corridoi fin quando l’uomo non vide un fascio di luce.
«È mattina!» esclamò Chiara, percorsero gli ultimi metri che li separavano dalla salvezza, ma proprio sulla soglia Chiara si fermò.
«Nasconditi!» gridò.
L’uomo, preso alla sprovvista, si nascose dietro la porta sfondata. Fu allora che sentì il sibilo, seguito dai passi pesanti, del predatore. La creatura  gli passò davanti con passo lento, emettendo il suo verso di caccia. L’uomo si schiacciò più che poté, trattenendo il respiro.
“Chiara, cazzo!”
Il mostro indugiò vicino al suo nascondiglio, forse attirato dall’odore del sangue. Poggiò la mano con gli artigli sulla porta, l’uomo vide le lunghe dita ossute serrarsi intorno al lato.
Merda, se la sposta sono fottuto.
Un rumore, forse causato dall’altro predatore, attirò l’attenzione del mostro, che lasciò la porta e scomparve tra gli scaffali.

We can be Heroes

«Via libera!» disse Chiara sporgendosi dove fino a poco prima c’erano stati gli artigli del predatore.
«Chiara! Come hai fatto a nasconderti?»
«Vieni, non c’è tempo!» lei gli porse la mano.
L’uomo si rialzò a fatica, stremato da quella lunga notte. Si tirò su il cappuccio del parka e seguì Chiara sotto la pioggia, mentre il cielo iniziava a rischiararsi.

We can be Heroes

«Che bella giornata!» disse lei, allargando le braccia al cielo.
L’uomo sorrise, ce l’avevano fatta. «Ti amo. Sei la mia unica ragione per andare avanti.»
«Anche io ti amo» rispose lei, gli si avvicinò, guardandolo con i suoi occhi azzurri e lo baciò. L’uomo si lasciò trasportare, come se tutto quello che aveva passato quella notte non fosse mai accaduto, come se fosse solo un sogno lontano. Il dolore, sparito, la sofferenza, spazzata via.
Esistevano solo lei e la sua lingua calda e umida.

And we kissed,
as though nothing could fall

Si staccarono, Chiara sorrise.
«Ora andiamo, lasciamoci alle spalle questa città, voglio andare verso quel monte» l’uomo indicò una montagna che svettava a ovest «sarà più facile trovare selvaggina» le diede ancora un bacio veloce e si incamminarono mano nella mano sotto la pioggia.
E ci saranno anche meno predatori.

We can be Heroes

Guardò la donna che amava sorridere sotto il cappuccio, sembrava così felice, come se gli orrori che vivevano tutti i giorni non la toccassero nemmeno.
L’uomo deglutì una pastiglia di antibiotico e sorrise, il dolore alla gamba era diminuito.
Appena trovo un posto sicuro devo cambiare la medicazione.”

Just for one day

Qualsiasi cosa dovremmo affrontare, lo faremo insieme.
La risata cristallina e argentea di una donna sovrastò la canzone.  L’uomo guardò Chiara.
«Cosa c’è che ti fa ridere?» le chiese.
Lei non rispose, continuò a camminare senza degnarlo di uno sguardo.
Stava per togliersi le cuffie…
Crrrrrrrrrr
Un rumore simile ad un’interferenza radio lo bloccò.
La risata della donna tornò a rimbombare nella sua testa.


La malattia, la follia, e la morte, erano gli angeli neri che si affacciavano sulla mia culla.

*Canzoni inserite: "Heroes" di David Bowie e "Sono un Fantasma" di MadMan.

sabato 23 maggio 2015

L'IDOLO BIANCO - SPORE



1° Classificato alla I edizione del Torneo Mensile - "Regno delle Storie" di Nuova Solaria Forum


21 Luglio 1969
«Sto scendendo dal LEM ora.» La voce di Armstrong, leggermente modificata dalle interferenze e dal microfono, riempì la sala. Tutti, in assoluto silenzio, guardavano a bocca aperta lo schermo sul quale scorrevano le immagini trasmesse dalla telecamera sul casco dell’astronauta.
«Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità.» La frase fu seguita da un’ovazione generale, la gioia nella sala controllo della NASA era incontenibile, c’era chi si abbracciava, chi brindava col caffè e qualcuno, perfino, aprì una bottiglia di champagne, facendo un gran botto. 
“Incredibile, siamo arrivati sulla Luna.” Pensò Miller.
«Quindi te ne andrai adesso…» disse Margaret.
«Non qui, non è il momento né il luogo, comportati normalmente. È un momento di festa…» le disse sforzandosi di sorridere.
“Non avrei mai dovuto coinvolgerla dell’operazione dell’MI-1947 …”
«Come faccio a…» replicò lei.
«Maggiore Miller, devi seguirmi» li interruppe un uomo alto, in completo nero.
John diede un veloce bacio sulla guancia a Margaret. L’espressione della donna però non mutò, rimase quella fredda e austera di sempre, ma John sapeva che sotto quella faccia da dura e quel cespuglio di capelli neri c’era un cuore caldo. Molto caldo.
«Torno subito» le disse, poi si rivolse all’uomo: «Andiamo.»
“È giunta l’ora.”
«Il successo della missione Apollo 11 ci permette di far avanzare finalmente il nostro progetto» gli disse l’uomo mentre salivano sull’ascensore, inserì la chiavetta nella pulsantiera e iniziarono a scendere, diretti verso i piani segreti.
«Avete risolto il problema del carburante?»
«Stiamo andando dal dottor Dallen, le spiegherà tutto lui.»
Dopo qualche minuto l’ascensore si fermò, Miller e l’uomo in completo uscirono, percorsero il buio corridoio in silenzio, fino a svoltare a destra al secondo incrocio e poi entrare in una stanza sulla sinistra.
L’ambiente era piccolo, sembrava un piccolo ufficio dell’impiegato di medio livello di qualche azienda: sulla scrivania in centro alla stanza erano sparpagliati fogli con appunti e calcoli mentre, alla lavagna in fondo, un ometto piccolo e dai capelli bianchi stava facendo calcoli di fisica e balistica. Quando li sentì entrare si voltò, e i suoi occhi si illuminarono.
«Ci siamo maggiore Miller, ci siamo!» esclamò saltellando.
John prese una sedia e si sedette.
«Dimmi tutto, professore, quando devo partire?»
«La convergenza con Alfa Centauri sarà questo Novembre. Il presidente Nixon ha dato il suo consenso per una missione Apollo 12, la missione lunare servirà sia come copertura che come mezzo per risparmiare il carburante. Ho fatto dei calcoli e…» il professore rovistò fra tutti gli appunti sparsi sulla scrivania. «Ma dove l’ho messo? Ah sì, eccolo!» Prese un foglio e lo diede a John, che lo studiò. Vi erano disegnate traiettorie circolari con annessi calcoli matematici.
«Professore, da quello che ho capito dai tuoi calcoli intendi agganciare il mio modulo all’Apollo e poi farmi sganciare vicino alla Luna…»
«Esatto, sfrutteremo la gravità della Luna per mandarti verso Alfa Centauri risparmiando carburante, in questo senso è importante per il pilota dell’Apollo sganciarti esattamente in questo punto» piantò il gesso contro la lavagna. «In questo modo la spinta gravitazionale ci consentirà di risparmiare il cinquanta per cento del carburante, praticamente fino a questo punto la navicella avrà ancora il serbatoio pieno.»
«E invece con l’ibernazione?»
«Oh, abbiamo fatto grandi passi avanti! Ora si risveglia con successo un volontario su quattro.»
«Oh è molto confortante…»
«Per novembre sarà tutto a posto» affermò il professore.
«Lo spero.»
«Il viaggio durerà circa dieci anni, il computer di volo sarà costantemente controllato dalla sala centrale mentre tu sarai nel criosonno; il pianeta da cui abbiamo rintracciato la traccia magnetica è Alfa Centauri Bb; è più vicino ad una delle due stelle di quanto volessimo, ma la tuta che stiamo sviluppando ti dovrebbe proteggere.»
“Il dovrebbe proteggere è ancora più confortante…”
«Cerca di passare sulla superficie solo il tempo necessario per raccogliere i minerali, atterrerai già vicino ad un punto dove vi è un’alta concentrazione perciò non avrai problemi.»
«Ho capito, c’è altro che devo sapere?»
«Questo minerale, è molto radioattivo…» disse con tono cupo. «Non posso garantirti che tornerai illeso da questa missione.»
«Conoscevo i rischi quando ho accettato.»
«Il minerale è troppo importante, con i pochi grammi che ci sono arrivati con l’UFO Roswell nel ’47 siamo riusciti a costruire bombe potenti cento volte Hiroshima… purtroppo però non ci è rimasta abbastanza quantità di minerale per iniziare una produzione su larga scala, ma se tu avessi successo… con un simile arsenale bellico l’Unione Sovietica sarebbe costretta ad ammettere la nostra supremazia. Porrai fine alla Guerra Fredda.»
John si alzò.
«Stai tranquillo, professore, lasciatemi uno spazio sui libri di storia accanto al nome di Armstrong.»

14 Novembre 1969
«Maggiore Miller, sei pronto?» La voce dell’operatore radio gli esplose in testa attraverso l’auricolare.
Miller se lo tolse di scatto.
«Come si abbassa il volume di questo coso?» disse, avvicinandosi con cautela la piccola cuffia all’orecchio.
«Il volume non è regolabile, signore»
«Sono alla NASA e non sanno regolare il volume…» disse fra sé e sé.
Miller controllò di essere ben agganciato al sedile, strinse le cinture.
“Giusto per scrupolo.”
«Accensione motori.» La voce del comandante Conrad, nel modulo allunaggio, gracchiò nella cuffia.
Le pareti del razzo iniziarono a tremare mentre i potenti motori propulsori venivano accesi.
Sopra alla plancia dei comandi dinnanzi a lui iniziò a lampeggiare una spia rossa.
«Si parte, buon viaggio, ragazzi» disse l’operatore nel centro di controllo. «Via al conto alla rovescia.»
«Dieci… nove… otto… sette… sei…» La voce femminile dell’altoparlante scandiva i suoi ultimi istanti sulla terra. La vibrazione dei motori crebbe fino a fondersi col battito cardiaco.
«Tre… due… uno…»
Il cuore gli balzò in gola, le orecchie gli si tapparono e un principio di vomito gli risalì l’esofago mentre il razzo si alzava in volo.
Miller strinse i pugni e ricacciò giù la bile, il sapore acidognolo gli riempì la bocca.
“Speriamo che finisca presto.” Ripensò a Margaret, gli aveva promesso che l’avrebbe aspettato, che avrebbe dato anima e corpo nella missione, sarebbe stata anche lei al suo fianco. John ci volle credere, sapere che lei lo pensava e pregava per lui gli dava forza per ciò che avrebbe dovuto affrontare.
I minuti passarono, lenti come ore, quando finalmente la nave smise di tremare: avevano oltrepassato la stratosfera.
Miller si tolse le cinture e si mise alla plancia di comando.
«Qui Columb 1 a Comando Operativo, mi ricevete?»
«Forte e chiaro, Columb 1… Apollo 12 è tutto in ordine?»
«Tutto perfetto, tra tre giorni saremo abbastanza vicini alla luna per sganciare Columb 1 verso la sua direzione»
«Bene ragazzi, ora è tutto nelle vostre mani.»

17 Novembre 1969
«Miller ti devi sganciare fra due ore, sei pronto? Miller?»
Fu riportato alla realtà dalla voce del comandante.
Riaprì a fatica gli occhi.
«Sì...» si schiarì la voce. «Sono qui»
«Forza, Miller! Ho bisogno di sapere se il tuo modulo è pronto per lo sgancio!»
«Controllo subito.»
Volteggiò verso la plancia di comando. Ricacciò giù il rigurgito che gli venne a causa dello scatto improvviso.
"Non sono ancora abituato a questa gravità zero, le simulazioni non erano niente in confronto..."
Arrivò davanti alla plancia, si assicurò al sedile con le cinture e iniziò il controllo dei sistemi di volo e del pilota automatico.
«Ho un ricevitore danneggiato, attivo quello di riserva.»
«Bene, Columb 1, diamo il via alla procedura di sgancio.»
Miller tirò la leva per avviare il processo di sgancio del modulo.
«Procedura iniziata, accendo i motori.»
Attivò i comandi manuali e afferrò saldamente la cloche.
«Apollo 12, sono in traiettoria per sfruttare la gravità della Luna, è tutto pronto per lo sgancio definitivo.»
«Ottimo, Columb 1, buona fortuna.»
«Grazie, comandante.»
Miller abbassò la leva dello stacco dell’ultimo gancio e la lastra di metallo che proteggeva il vetro della cabina di pilotaggio si ritirò verso l’alto.
L’intero universo si mostrò ai suoi occhi: da quel punto riusciva a vedere Marte, Giove e perfino una piccola parte di sole. Era uno spettacolo incredibile, pochissimi uomini avevano avuto il privilegio di assistervi.
“Ho davanti a me l’immensità del creato.”
La navicella improvvisamente fu investita da una forte turbolenza che per poco non gli fece sbattere la testa contro la plancia.
«Columb 1, lo sgancio automatico dell’ala destra non ha funzionato correttamente, devi sganciarla manualmente.»
«Cazzo!» inserì il pilota automatico e si slegò dal sedile, fluttuò, sballottato dalle continue turbolenze che lo facevano sbattere contro le pareti.
“Porco cazzo!”
Digrignò i denti e, a fatica, tenendosi ben stretto ad ogni appiglio che riuscì a trovare, arrivò nel modulo di comunicazione, vicino all’ala destra.
«CCO, sono nel modulo di comunicazione, procedo allo sgancio manuale dell’ala.»
Tirò la leva, ma quest’ultima si mosse solo di qualche centimetro.
«Cazzo! È bloccata!» tirò un pugno alla parete.
«Miller, devi espellere il modulo di comunicazione! Userai i sistemi ausiliari per il resto del viaggio.»
«Porca puttana!»
Miller uscì dal modulo di comunicazione, guardò sulla destra, in cerca del pannello d’emergenza.
“Era qui… oh, finalmente, eccolo!”
Prese il martelletto per le emergenze e ruppe il vetro di protezione del pulsante per l’espulsione antincendio. In un attimo le porte stagne sigillarono il modulo, un forte boato come di un’esplosione, uno strattone, e la navicella si stabilizzò. “Ce l’ho fatta!”
«Columb 1, i sistemi di bilanciamento si sono attivati, ti sei sganciato appena in tempo per sfruttare la spinta della Luna; la traiettoria fortunatamente non ne ha risentito; ma il modulo d’atterraggio automatico potrebbe darti problemi; per sicurezza, dovrai eseguire le manovre di avvicinamento al pianeta Bb manualmente.»
Miller si lasciò galleggiare, aspettando che l’adrenalina abbandonasse il suo corpo, fece due profondi respiri, era senza fiato.
«Ricevuto, CCO, non è un problema.»
«Stai molto attento, Columb 1, una volta che sarai fuori dal sistema solare non potremo più comunicare via radio, ti terremo aggiornato attraverso messaggi di testo al computer di bordo.»
«Ricevuto.»
Miller andò nella cabina di pilotaggio e scese la scaletta che lo avrebbe portato nel modulo del criosonno.
“Ci siamo.”
La stanza era vuota, salvo per un armadietto e una capsula per l’ibernazione in un angolo, era simile ad un grosso tubo grigio scuro.
Aprì l’armadietto, si tolse la tuta e gli scarponi, li piegò velocemente e li mise dentro. Chiuse gli occhi, inspirò profondamente, espirò.
«Entro nel criosonno, ci sentiamo fra dieci anni, CCO»
«Sogni d’oro, Columb 1, quando ti svegli guarda il computer.»
Tolse infine la cuffia e la chiuse nell’armadietto insieme al resto dell’equipaggiamento.
Si avvicinò alla capsula e premette il pulsante verde, un getto di vapore gelido si levò dall’apertura.
Miller fu scosso da un brivido di freddo lungo la schiena. “Sono arrivato fin qui, posso andare oltre.”
Entrò nella capsula e si sdraiò. Indossò la maschera per l’ossigeno e la capsula si chiuse automaticamente.
Stare dentro quella capsula era come andare in cima all’Everest in mutande, i brividi si fecero più intensi. Chiuse gli occhi.
Piano piano, la sua mente si ottenebrò. I suoi pensieri si disciolsero lasciando spazio al vuoto, sprofondò in un sonno totale, privo di immagini e suoni.

DATA IGNOTA
«Si sta svegliando, create l’ambiente atteso, la lingua è giusta?»
La sua coscienza riemerse dal buio e dal torpore, cercò di aprire gli occhi, ma erano incollati.
Sentì alcuni suoni, delle voci, ma non riuscì a capirle.
Non sentiva il suo corpo, provò a muovere le gambe, senza successo.
«Acqua…» biascicò.
Qualcuno gli accostò un bicchiere alla bocca e Miller bevve avidamente, dopo ogni sorso sentiva le forze ritornargli, finalmente riuscì a muovere le dita. Strinse il pugno e lo aprì, sentendo la sensibilità ritornargli nella mano. Poco dopo poté pulirsi gli occhi. Li aprì.
Si trovava in una stanza d’ospedale illuminata dai raggi del sole che provenivano dalla grande finestra alla sua destra, purtroppo, dalla sua posizione, l’unica cosa che riusciva a scorgere del paesaggio era il cielo rossastro.
“Sono sulla Terra?”
In piedi, a poca distanza dal suo letto, gli sorridevano un medico e due infermiere.
«Ti sei risvegliato finalmente» disse il dottore.
«Io… io…» tossì, il dottore si avvicinò e gli mise una mano sulla fronte. «Dove mi trovo?»
«Al sicuro.»
“Cos’è questa sensazione? Come se avessi qualcosa in…”
Tremante, John fece scivolare le mani sulla propria testa: era stato rasato e gli avevano impiantato dei tubicini, ne toccò una decina, poi, preso dal panico, ne strappò via una manciata, le infermiere si precipitarono a bloccargli le mani al lettino con dei lacci.
«No, no, no, no» disse il medico, rimettendo i tubicini al loro posto. Miller sentì una puntura ogni volta che il dottore ne impiantava uno nella sua testa. «Quelle sonde ci servono per monitorare le tue attività cerebrali, vogliamo che sia tutto in ordine.»
«Sono sulla Terra?» chiese Miller.
«Prima tu rispondi alle nostre domande, e poi noi risponderemo alle tue. Chi sei? Da dove vieni?»
«Non posso dirlo.»
“Cosa cazzo è successo alla mia navicella?”
Il dottore fece una smorfia di rabbia.
«Sei piombato qui dal cielo e per poco non uccidevi una decina di bambini della colonia che stavano giocando.»
«Colonia?»
«La tua navicella si è schiantata sei mesi fa, ti abbiamo trovato congelato in una capsula e ti abbiamo portato qui e curato. Dirci chi sei mi sembra il minimo.»
“Dannazione, non ho storie di copertura.”
«Sono un astronauta, mi chiamo Miller. Ero stato mandato a costruire una prima installazione umana sulla Luna.»
Dire che hai mancato il tuo obiettivo di parecchio.»
«Che pianeta è questo?»
«Marte.»
«No… impossibile, come abbiamo fatto ad arrivare su Marte?»
“Che cazzo ci fanno degli uomini qui?”
Il dottore si schiarì la voce.
«Quello che sto per dirti potrebbe… sconvolgerti» si girò a guardare le infermiere, come per cercare aiuto.
«Hai vagato nello spazio per oltre quarant’anni.»
«Non ci credo…»
“Sono tutte cazzate, la NASA… devo parlare con qualcuno della NASA.”
«In che anno siamo?»
«Duemilaventisei.»
«Sono cazzate!»
Con la forza dell’adrenalina riuscì a rompere i legacci che gli bloccavano le mani e iniziò a ristrapparsi le sonde dalla testa.
«È impossibile!» urlò.
Le infermiere gli presero i polsi e fecero una forte pressione, erano troppo forti per essere delle donne qualsiasi, ben presto le forze lo abbandonarono. Si divincolò, ma era troppo debole.
«Lasciatemi uscire!»
«Presto, sedatelo!» disse il dottore.
Un’infermiera tirò fuori una grossa siringa dal contenuto verdastro e glielo impiantò nella coscia.
Miller urlò di dolore ma ben presto ogni sensazione passò, ottenebrata dal liquido, la sua coscienza tornò giù, in profondità.

GIORNO E MESE IGNOTI, 2026
«Signor Miller, spero che questa volta la conversazione possa essere più… produttiva.»
Miller si svegliò di colpo, gli occhi vagarono per la stanza completamente buia, non riuscì a scorgere nessuno nell’ombra.
“Che cazzo… ho sognato tutto?”
«Sono qua, signor Miller.» In un angolo della stanza un’ombra si mosse.
Miller cercò di alzarsi, ma aveva dei blocchi d’acciaio ai polsi e alle caviglie.
«Una piccola precauzione…»
Miller digrignò i denti.
«Temo che tu non ti sia presentato, dottore…»
«Il mio nome è Tucramix.»
«Mi pigli per il culo? Che razza di nome sarebbe?»
«Qui sulla colonia i nomi sono diventati, come dire… esotici» il dottore si avvicinò, la sua sagoma divenne più definita. «Mi dispiace ma se non mi dai le informazioni che voglio sarò costretto ad usare metodi meno civili.»
«Cosa cazzo vuoi sapere?»
“La missione deve restare segreta, almeno finché non potrò parlare con qualcuno della NASA, per quanto ne so, potrei essere in mano nemica.”
«Abbiamo analizzato il tuo computer di bordo, ma i dati che abbiamo scoperto sono solo coordinate e qualche avviso di malfunzionamento della capsula criogenica. Ho pensato che col tuo cervello avremmo avuto più fortuna, ma si è rivelato più… complesso del previsto.» il dottore si sedette sul suo lettino e accese il monitor dietro di esso, quello a cui si collegavano i tubicini.
“A cosa servono questi tubi? Possono davvero leggermi nella mente?” iniziò a sudare freddo.
«Purtroppo gli impulsi del tuo cervello non sono facili da codificare, abbiamo ricavato solo informazioni banali, noi vogliamo sapere perché sei qui.»
«Voi chi?»
«NIENTE DOMANDE!»
«Non posso rispondere fin quando non parlerò col capo della NASA.»
Il dottore rimase in silenzio.
«Ci parlerai. Rispondi solo a qualche domanda ancora, da che pianeta vieni?»
«Terra.»
«Terra… del sistema… Solare?»
«Quante altre terre ci sono?»
«Perdonami, con tutti questi pianeti ormai non mi raccapezzo più» il dottore si esibì in un sorriso forzato.
«Mi sembra tutto molto strano, dottore...»
Tucramix mugugnò.
«Il pianeta da cui vieni, in che condizioni ambientali è? La vita prospera?»
«Cosa cazzo ne so, sono rimasto congelato per quarant’anni! Può essere cambiato tutto, ma non potete contattare la NASA?»
«Vogliamo sapere se dici la verità.»
«È molto bello, visto dallo spazio poi è un vero spettacolo, la vita prosperava.»
«Ci vorresti tornare?»
«Probabilmente tutti quelli che conosco sono morti… ma sì, ci voglio tornare.»
«Molto bene, andiamo a parlare con la NASA, promettimi però che non farai casini una volta che ti avrò tolto questi legacci.»
Miller annuì.
«Bene, andiamo.»
Il dottore inserì una chiave nel monitor e i due bracciali d’acciaio si aprirono, lasciando Miller libero. Si massaggiò i polsi, sentiva le mani formicolare.
«Aspetta ad alzarti, devo toglierti il catetere, farà un po’ male.»
Miller strinse i denti mentre il medico estraeva il tubicino dalla sua uretra.
«Stai attento a metterti in piedi.» Lo avvertì Tucramix.
Miller si mise seduto sul bordo del letto, avere il suolo sotto i piedi gli faceva un effetto strano, gli sembrava quasi di essersi dimenticato come si faceva a camminare.
“Andiamo, hai fatto un viaggio nello spazio di quarant’anni, cosa ci vuole a fare qualche passo?”
Si alzò in piedi, riuscì a stare eretto solo per qualche secondo, poi ebbe un capogiro; Tucramix lo sostenne.
«Forza, ti do una mano io.»
«Grazie» disse a denti stretti Miller.
Il dottore lo accompagnò fuori dalla stanza tenendolo dalla spalla, il corridoio dell’ospedale era illuminato da una strana luce blu, disposta a metà parete lungo entrambi i muri.
«Mi dispiace per i blocchi ai polsi e tutto quanto, ma dovevamo essere certi. La Columb 1 era stata data per persa decenni fa.»
«Come abbiamo fatto a colonizzare un pianeta in così poco tempo?»
«Ti stupiresti di vedere cosa siamo in grado di fare» sorrise Tucramix. «Forza, svolta qua… perfetto, apri la porta per favore, grazie, sulla destra, c’è un interruttore. Siediti lì vicino al tavolo, ti vado a prendere un ricetrasmettitore audio.»
Miller obbedì. Anche quella stanza era illuminata dalla luce azzurrina.
“Che posto strano, non sembra un centro di comunicazione.”
«Tucramix, avete della biancheria della mia taglia? Questo camice inizia a darmi fastidio.»
«Ma dov’è che l’ho messo? Ah sì, eccolo qui… sì, dopo andiamo a prenderti qualcosa che ti vada.»
Il dottore prese qualcosa dallo scaffale dietro di lui e gli si sedette accanto.
«Ecco, indossa questo auricolare» gli porse una cuffia piccola e nera e gli fece segno di metterlo nell’orecchio, era molto fredda.
“Quanto è avanzata la tecnologia mentre dormivo?”
«Tra poco dovrebbe arrivarti il segnale.»
La cuffietta gracchiò, il suono era decisamente disturbato.
«Non si può regolare questo coso?»
«Abbi pazienza.»
Miller sentì una voce amica.
«Miller? Mi senti?»
«Dottor Dallen? Ma come fai a essere ancora vivo?»
«La medicina ha fatto notevoli progressi mentre tu dormivi! Ti davamo per morto!»
«Dottore, non sai che piacere risentirti!» I suoi occhi iniziarono a bruciare e le lacrime gli rigarono il volto. «Margaret! È viva? Come sta?»
«Anche lei sta bene, Miller, non preoccuparti, è solo un po’ invecchiata, forse.»
«Può passarmela?»
«Non è qui al momento, vedrò di farle sapere che sei vivo, anche se… si è rifatta una vita»
Miller ebbe un colpo al cuore.
«Sì, be’… lo immaginavo» Miller si asciugò il volto con il camice. «Dottore cosa ne è della mia missione? Della guerra? Abbiamo vinto?»
«Sì, certo… abbiamo vinto. La tua missione ora è cambiata, devi tornare qui sulla Terra e ci devi portare uno speciale trasmettitore costruito su Bb. Ci sei capitato a pennello, Miller, stavamo proprio cercando un pilota esperto per un viaggio tra sistemi; vedi di non metterci quarant’anni di nuovo però.» Il dottore si mise a ridere e anche Miller scoppiò in una risata liberatoria.
«Certo dottore, non vedo l’ora di tornare a casa.»
«Molto bene, per ogni dubbio parla con Tucramix.»
«Va bene, dottore, a presto.»
«A presto, Miller.»
Miller si tolse la cuffia e la porse a Tucramix.
«Se vuoi tienila, così ti senti più sicuro ed eviti nuovi attacchi di panico» gli fece un occhiolino.
«Va bene, grazie. Andiamo a togliere questo camice puzzolente? Non ne posso più!» si risistemò la cuffia nell’orecchio.
Tucramix sorrise.
«Certo, andiamo.»
I due uscirono dalla stanza e la marcia lungo i corridoi riprese.
«Quella Margaret… dev’essere stata una persona importante per te» osservò Tucramix.
«Sì, le avevo promesso che l’avrei sposata una volta finita la missione, ma ormai non ha più importanza…»
«Parlami di lei, so che era coinvolta nella tua missione.»
«Lei è un ingegnere spaziale, è piuttosto abile. L’ho coinvolta io nel progetto, ha aiutato Doc a creare la capsula del criosonno, è una donna in gamba. Non è bellissima, il viso è piuttosto duro, molti uomini si sentono in soggezione con lei… ha dei lunghi riccioli neri che profumano di shampoo alla vaniglia, ricordo che adoravo annusarli mentre dormiva… ma ormai ha sposato un altro, avrà anche dei figli… credo…» Miller si rabbuiò.
«Mi dispiace.» Disse Tucramix, la loro camminata continuò in silenzio.
“Questo posto sembra un labirinto, come fa ad orientarsi?”
«Questo posto è deserto…» commentò Miller.
«Siamo in un ospedale militare, in piena notte poi, quante persone nei corridoi ti aspetti di trovare?»
«Qualche guardia, almeno…»
«Le guardie sono all’ingresso, qua la maggior parte dei pazienti è legata al letto. Considerati fortunato nell’avere me, molti miei colleghi non ti avrebbero dato un’altra occasione.»
Fecero un paio di svolte in quei corridoi tutti uguali, l’ambiente era diventato molto caldo, tanto che Miller stava iniziando a considerare l’idea di rimanere col camice. “Peggio di una sauna.”
«Tucramix, la mia navicella dov’è?»
«Non c’è più, è stata analizzata e smantellata.»
«E come torno indietro?»
«Con una nostra, non temere. Eccoci, siamo arrivati.»
Tucramix si fermò davanti ad una porta d’acciaio uguale a tutte le altre, vi appoggiò il palmo, si spalancò: la stanza era un qualunque spogliatoio d’ospedale, grande abbastanza per ospitare una ventina di persone, con armadietti e panchine in legno lungo le pareti. Tucramix aprì un armadietto ed estrasse una camicia bianca, dei pantaloni di tela e delle scarpe da ginnastica.
«Prendi, sono di un mio collega, può benissimo tornare a casa con gli abiti da lavoro; dovrebbero essere della tua taglia.»
«Non avete invece…» si indico le parti intime.
«Temo di no, accontentati, te ne farò avere un paio.»
«Perfetto.»
Prese gli indumenti dalle mani del dottore e si cambiò, le scarpe senza i calzini erano un po’ larghe, ma erano sempre meglio che le ciabatte dell’ospedale.
«Ora è meglio che torni a riposare, hai avuto fin troppe emozioni.»
«Già…» allargò le braccia, per vedere se la maglia gli stringeva. «Perfetta! Tucramix, puoi farmi un favore?»
«Dipende, dimmi.»
«Mi dici che giorno è oggi?»
«Qui o sulla Terra?»
John rise. «Giusto, mi ero dimenticato di essere su un altro pianeta. Sulla Terra.»
«Il quattro Settembre duemilaventisei.»
«Forse sono in tempo…»
«Per cosa?»
«Per fare gli auguri a Margaret, domani è il suo compleanno.»

5 Settembre 2026
Miller si svegliò. Il primo pensiero andò a Margaret, doveva andare a farle gli auguri.
La luce del mattino filtrava dalle imposte, le aprì, godendosi il calore dei due soli e la vista della città, non c’erano strade, nessuno camminava tra i giganteschi edifici a cono. Sembrava un luogo deserto.
Ci mise qualche secondo a realizzare ciò che aveva appena visto.
“Porca puttana.”
La porta dietro di lui si aprì: entrò Tucramix. «Bene, vedo che sei tornato in forma.»
«Sì mi sento molto meglio, anche se ho una fame da lupi.» Cercò di rimanere normale e tranquillo. “Che cazzo mi nascondi, figlio di troia?”
«Tra un paio d’ore porteranno il pranzo.»
«Per quando è prevista la mia partenza?»
«Ancora qualche giorno, abbiamo un piccolo problema col dispositivo di trasmissione.»
«Che bei soli ci sono oggi» commentò Miller.
«Sì, è una splendida giornata.»
“Fregato” Miller sorrise dentro di sé, il dottore si era fregato con le proprie mani.
«Volevo andare nel centro di comunicazione per Margar…» Tucramix si avvicinò, la sua testa iniziò a gonfiarsi, le braccia si allungarono, la pelle perse colore, fino a diventare pressoché trasparente, tanto da poter vedere i muscoli sotto. Miller arretrò. Si schiacciò contro la finestra, si sentiva privato di ogni calore, aveva solo una paura tremenda, fredda come il ghiaccio.
Ciò che una volta era il dottore aprì la bocca, scoprendo delle zanne lunghe quanto il pollice di un uomo.
«Cosa c’è, Miller? Ti senti male? Tremi come una foglia.»
Miller sbatté gli occhi, il mostro davanti a lui scomparve, lasciando posto al dottore.
“Che cazzo?”
Si lasciò cadere a terra, Tucramix corse ad aiutarlo.
«No, no» lo allontanò con un gesto della mano. «Sto bene. Ho solo avuto un capogiro.»
Il dottore lo guardò accigliato.
«Davvero. Sto bene» ma il dottore non sembrava convinto.
«Scusami, devo andare.» Senza aggiungere altro, Tucramix si precipitò fuori dalla stanza.
Miller si portò la mano all’orecchio: «Doc, mi sente? Dottor Dannel?»
Nessuna risposta.
“Devo seguirlo, qua sta succedendo qualcosa di strano.”
Il dottore aveva dimenticato la porta aperta, fu facile seguirlo. I corridoi erano pieni di angoli in cui nascondersi. All’improvviso lo vide fermarsi e annusare l’aria, come se avesse capito di essere seguito; Miller scivolò dietro un angolo. “Appena in tempo.” Tucramix ricominciò la sua camminata, fu allora che Miller si accorse di un dettaglio a cui finora non aveva prestato attenzione: “Come mai i passi del dottore non fanno rumore? La sua storia non mi convince. Chi è in realtà? E cos’era quella visione? E se fossi davvero in mano nemica… no, è impossibile, ho parlato col Doc, non avrebbe mai potuto tradirci… devo andare fino in fondo a questa storia.”
Seguì il dottore fino all’ingresso di una stanza illuminata con lampade al neon, era la prima stanza a non usare quelle fastidiose luci azzurrine,  doveva essere un laboratorio. Miller vide scienziati che armeggiavano con strani macchinari dalle mille spie, leve e pulsanti. Acuni lavoravano davanti a dei recipienti di liquido fluorescente e gelatinoso, ci inserivano dentro delle uova, uova enormi, simili a quelle di struzzo, e rimanevano a osservarle galleggiare o affondare, a seconda del recipiente e della gradazione di colore del liquido. Tucramix si diresse verso un’altra porta all’interno della stanza e la oltrepassò. “Merda, con tutta questa gente come faccio a seguirlo?”
Si guardò intorno, cercando un modo per entrare, vide un camice abbandonato su una sedia.
“È l’unico modo, ho ancora addosso gli abiti del collega di Tucramix, con un po’ di fortuna nessuno mi noterà.”
Con tutta la freddezza possibile entrò nella stanza e raccolse il camice dalla sedia, se lo infilò. Presi com’erano dai loro studi, nessun scienziato lo degnò di uno sguardo. Oltrepassò la porta dov’era andato Tucramix e si ritrovò in una stanza dove un gruppo di scienziati stava discutendo intorno al tavolo. Miller si nascose in una rientranza della parete e si accovacciò, era nel buio, non l’avrebbero visto.
«Qualcosa non ha funzionato, forse abbiamo sottovalutato le sue capacità percettive» era Tucramix a parlare.
«Pensi che sospetti qualcosa?» chiese una voce femminile.
«Sicuramente sì, possiamo provare a resettargli la memoria, ma non sappiamo che effetti potrebbe avere su uno della sua razza. Dobbiamo muoverci a completare il dispositivo, quanto manca ancora?» Un’altra voce si unì al dialogo, dal tono, doveva essere qualcuno di molto importante.
“Della mia razza?” La faccenda si faceva più complicata.
«Le spore si diffondono bene in ogni situazione, abbiamo solo dei problemi col trasferire la coscienza nel soggetto contaminato.»
«Bene, abbiamo un’occasione d’oro, signori. Non possiamo fallire. Dedicheremo questa missione ai nostri compagni abbattuti dai terrestri durante le ricognizioni.»
«Le radiazioni dei soli continuano ad aumentare, secondo i calcoli ci restano ancora due anni di vita prima che il pianeta venga reso completamente inabitabile. Le scorte sono quasi esaurite, inoltre, le nostre tecniche di produzione del cibo si stanno rivelando insufficienti sul lungo periodo, dovremo tagliare fuori dalla rete un alveare se vogliamo andare avanti» disse una voce impostata e fredda.
“Lo sapevo. Questi figli di puttana mi vogliono usare per spargere qualche arma chimica… ma il Doc come può essere coinvolto in tutto ciò?”
«Un motivo in più per sbrigarsi, se riusciamo a far spargere le spore non avremo più bisogno di sacrificare un'altra parte della nostra razza. Riguardate il codice della simulazione, non voglio che un incidente come quello di oggi si ripeta.»
«Signore, io sono contrario» era di nuovo Tucramix. «La soluzione non è trasferirci su un pianeta già abitato, rischieremo davvero una guerra che potrebbe annientarci del tutto. Se mi lasciaste ancora un po’ di tempo…»
«Ne ho abbastanza delle tue chiacchiere, Tucramix. Il terrestre è arrivato ora, è un segno. Abbiamo concentrato tutti gli ultimi sforzi per la creazione delle spore. Esegui gli ordini senza fiatare e lascia che alla gestione del trasferimento pensiamo noi. O preferisci rimanere qui?» Silenzio. «La seduta è sciolta.»
Gli uomini e le donne in camice lasciarono la stanza, Miller trattenne il fiato mentre gli passavano accanto senza accorgersi di lui.
“Devo trovare un modo di andarmene di qui, devo riuscire ad avvisare Margaret che stiamo per essere attaccati, di lei mi posso fidare.”  Abbandonò il suo nascondiglio, aprì leggermente la porta: il laboratorio era vuoto.
“Che culo, saranno in pausa pranzo.”
Uscì dalla stanza e si immerse nel dedalo di corridoi.
“Il difficile sarà tornare nella mia stanza.” Vagò per ore e ore, la fame gli artigliava lo stomaco come un’aquila artiglia un coniglio, aveva le gambe molli e molta sete. “Morirò di stenti… a quest’ora avranno anche scoperto che sono fuggito, di certo non mi tratteranno con i guanti… dopotutto morire di stenti non è così male…”
Si appoggiò al muro e si sedette per terra, stremato. Tucramix gli comparve davanti un attimo dopo, Miller trasalì: non l’aveva sentito arrivare. Il dottore compariva sempre dal nulla, come un fantasma.
«Tucramix, per fortuna sei qui! Ero venuto a cercarti ma mi sono perso…» si sforzò di sorridere.
Il dottore rimase in silenzio, la pupilla dal centro dei suoi occhi si dilatò fino a riempire tutto il bulbo.
«Stai male?» chiese Miller.
Conversero su di lui da ogni corridoio, dottori, infermiere, scienziati, tutti con gli occhi completamente neri. Miller iniziò a tremare convulsamente, gli sembrò che le pareti si stringessero intorno a lui. Attacco di panico. Si alzò di scatto e cercò di scappare via da quell’orda di mostri, ma fu bloccato da mani implacabili, dalla morsa di ferro, nel giro di pochi secondi era immobilizzato a terra.
“Merda. Sono fottuto.”
«Tucramix, è nell’area del laboratorio! Se ti avesse seguito?»
«Anche se fosse non capisce la nostr… No!»
Delle dita gelide gli scavarono nell’orecchio e gli tolsero il ricetrasmettitore.
Le parole dei medici divennero semplici suoni. Vuoti. Privi di significato.
Tucramix disse qualcosa, John fu trascinato in una stanza, non seppe riconoscere se era la stessa in cui era stato prima. Provò a liberarsi, ma la presa dei mostri era ferrea, gridò aiuto, ma nessuno venne in suo soccorso. Gli istanti si seguivano confusi, grugnì di dolore mentre sentiva gli aghi venire reimpiantati in testa. “Non sono nemmeno riuscito a farle gli auguri…” Pochi attimi, e fu il buio.

14 Novembre 1969
«Miller, Miller sveglia!»
Qualcuno lo scosse per la spalla, aprì lentamente gli occhi. Aveva un gran mal di testa.
Ci mise un attimo a capire che chi aveva davanti era Margaret.
«Margaret! Tu, io… la missione?»
«Finalmente ti sei svegliato! Mi hai fatta preoccupare, la missione è annullata! Apollo 12 è stato colpito da un missile russo prima di lasciare l’atmosfera, è un miracolo che tu sia ancora vivo. Non ricordi niente?» Margaret gli sorrise; Miller, nel profondo, sentiva che qualcosa non andava, ma non riuscì a capire cosa fosse.
«Ma… Bb… Doc?»
«È tutto passato, Miller… hai delirato per tutto il tempo dopo l’operazione, ma è andata bene» gli fece una carezza, aveva la mano congelata. Miller la prese fra le sue.
«Ti senti bene, Margaret? Sei gelida.»
«Ero solo preoccupata.»
“Possibile che la partenza sia stata un sogno?”
«Miller, abbiamo una nuova missione per te, so di chiederti molto, ma dopo l’attacco ci sono rimasti pochi piloti»
«Ma in che anno siamo?»
«Millenovecentosessantanove» lo guardò come si guarda un folle.
«Temo che l’incidente mi abbia scombussolato un po’.»
«Domani partirai, la missione è semplice, il computer di bordo è già programmato per portarti nel luogo stabilito. Vedi questo?» tirò fuori dalla schiena un barattolo metallico, dal fondo appuntito. «Devi piantarlo per terra e aprirlo, così» gli fece vedere il punto esatto dove si trovava una piccola leva da tirare per far aprire il barattolo, «Dentro ci saranno delle spore geneticamente modificate, uccideremo tutti i rossi, ce la pagheranno per quello che hanno fatto ad Apollo 12.»
Miller ebbe un attimo di esitazione, un pensiero gli attraversò la mente, troppo rapido perché riuscisse a coglierlo, l’istinto gli diceva che c’era qualcosa di pericoloso. Ma quella era la sua Margaret, non gli avrebbe mai mentito.
«Va bene»
«Bravo, amore mio.» Si chinò a baciarlo sulla bocca, le sue labbra erano gelide, come quelle di un morto. Si staccò leggermente dal bacio. «Ora dormi, amore mio. Non vogliamo correre rischi, ti sveglierai solo quando sarà il momento.»
“Margaret non mi ha mai chiamato amore mio!”
«Chi s…» scoprì di avere braccia e gambe legate. Margaret gli diede un nuovo, gelido, bacio. Gli sembrò che attraverso quel bacio lei gli stesse portando via tutta la forza, provò a resistere, ma fu inutile.
«Dormi, amore mio.»

15 Novembre 1969
La volta celeste era più luminosa che mai, nell’aria c’era quel profumo tipico dei boschi, di pino, di resina. Aveva un vuoto di memoria, gli ultimi giorni della sua vita gli parevano così confusi… tante immagini… ma non riusciva a focalizzarne nessuna.
Dietro di lui, la sua navicella, la Columb 1, illuminava la fitta vegetazione poco più avanti; aveva lasciato un piccolo cratere nel punto d’atterraggio. Si addentrò nel bosco, in mano aveva il barattolo metallico che Margaret gli aveva spiegato che conteneva una potente arma chimica, doveva metterlo in un punto in cui i rossi non avrebbero potuto trovarlo. Doveva fare in fretta, sicuramente l’avevano intercettato con i radar e presto sarebbero arrivati.
Dei flash: il razzo che lo avrebbe dovuto portare in orbita colpito, lui che effettua un atterraggio di emergenza, Margaret.
Com’era arrivato nel bosco? Perché ci era arrivato con la navicella? Improvvisamente si fermò, le domande gli ronzavano in testa, Miller sapeva che la risposta era lì, davanti ai suoi occhi. Ma c’era qualcosa che annebbiava la sua mente quando tentava di accedere a quel ricordo, si fece venire il mal di testa, cercando di dare un senso a tutto.
«Siamo stati attaccati duramente, è ora di ripagare il nemico con la stessa moneta» la voce di Margaret gli arrivò dalla ricetrasmittente nell’orecchio, riportandolo alla realtà.
“È giusto, loro ci hanno attaccati per primi e ora devono pagare. È come Pearl Harbor.”
«Sono sul luogo indicato. Procedo con il rilascio delle spore.»
Indossò la mascherina e impiantò il barattolo nel soffice terreno, poi tirò la piccola leva sul tappo, ci fu uno sbuffo, come quando si aprono le scatole di caffè sotto vuoto; un leggero fumo giallo iniziò a disperdersi nell’aria.
«È fatta, Margaret!» nessuno gli rispose. «C’è qualcuno? Ho rilasciato la spora!»
“Forse è saltato un collegamento” tornò di corsa alla navicella.
Inserì le coordinate del John F. Kennedy Space Center nel computer di bordo e tirò la cloche.
“Ce l’ho fatta!”
«Stai per entrare in un’area militare degli Stati Uniti d’America, identificati, fai dietrofront o verrai abbattuto!» Era una donna a parlare, il suono non proveniva dall’auricolare, ma direttamente dalla radio di bordo.
«Qui Columb 1, non sparate, ripeto, non sparate.»
«Mi pigli per il culo?»
«No, signora, perché? Son partito stamattina dalla base.»
“O almeno credo fosse stamattina.”
«Columb 1 è scomparso quasi venti anni fa… come ti chiami?» la donna sembrava piangere: la voce era rotta da singhiozzi.
«Sono il maggiore John Miller.»
«Impossibile, è morto.»
Miller scoppiò a ridere. «Signora, le assicuro che sono io, ho consegnato il pacco ai rossi, sto tornando alla base, lo chieda alla sovrintendente Margaret Randal»
«Miller, il tuo segnale indica che sei partito dalla Louisiana… non mi riconosci? Sono io Margaret Randal!»
Dei flash: un mostro bianco, cielo rosso, occhi neri. Era tutto confuso… si sforzò di ricordare e qualcosa nella sua mente si sbloccò.
«Miller, ci sei? Non sai quanto sono felice di sapere che sei vivo!»
«Margaret… cosa ho fatto…»